Pochi mesi dopo, il 27 ottobre 1962, Mattei muore nella sciagura aerea di Bascapé; il vicepresidente Enrico Martini Mauri lo sostituisce fino al Congresso Federale, che si tiene a Milano del 25 maggio 1963 e si presenta subito molto combattuto: alle già forti tensioni che contrapponevano i favorevoli ed i contrari al progetto di un governo di centrosinistra e delle riforme che esso avrebbe innescato, si aggiunge l’aspro confronto sui temi innovativi della Pacem in terris, appena pubblicata, mentre cominciano a delinearsi le notevoli aperture che caratterizzavano i primi lavori del Concilio, aspetti questi che toccavano molto da vicino la sensibilità degli appartenenti alle formazioni partigiane di ispirazione cattolica. Ne derivò una soluzione di compromesso, con la conferma di Martini Mauri alla vicepresidenza, affiancato dall’on. Alessandro Canestrari, esponente della D.C. e più volte sottosegretario, e con l’elezione di Mario Argenton alla presidenza: la sua fama di personaggio integerrimo offriva la garanzia di una posizione equilibrata all’interno della Federazione, così come la sua appartenenza al mondo liberale lo poneva nella condizione di non essere immediatamente inquadrabile rispetto alle direttive del partito di maggioranza o ad una delle sue ormai molte correnti. Per tutti questi motivi, la presidenza Argenton favorì il rafforzamento delle singole Associazioni federate, che, dal fatto di non avere un interlocutore politicamente riconoscibile alla presidenza della Federazione, com’era stato in precedenza con Mattei e lo stesso Cadorna, vennero stimolate ad assumere una propria posizione e a darsi da fare concretamente, attraverso la pubblicazione di testimonianze ed approfondimenti storiografici, la posa di lapidi e monumenti a ricordo della Resistenza; tutto questo non significava però anche la mancanza di indirizzi e visioni strategiche sulle quali concentrare l’attenzione della Federazione, come dimostra un articolo pubblicato sul periodico ufficiale della F.I.V.L. «Europa Libera» nel luglio 1964, che riprende il discorso di Argenton al Consiglio Federale:
La Resistenza rappresenta per noi volontari della libertà il cemento unitario dell’Europa. E quale Europa avrebbe potuto sorgere dalle rovine, dagli odi, dai lutti della seconda guerra mondiale senza l’apporto del più forte popolo europeo, il popolo tedesco? […]
Poiché nella continua esaltazione comunista della Resistenza c’è proprio questo recondito fine: espungere la Germania dalla comunità dei popoli europei, impedire l’unione dell’Europa. L’Europa divisa è una serie di capisaldi da conquistare con la violenza o con l’astuzia da parte del comunismo: l’Europa unita sarà una fortezza imprendibile. I nostri occhi, ormai offuscati e stanchi dalla propaganda, non riescono più a percepire quanto scaturisce dal nostro autentico sentire e quanto ci viene di lunga mano da una propaganda orchestrata da Mosca: la paura dei sovietici diventa la nostra paura, le loro ragioni si fanno le nostre, il loro odio atavico diventa nostro e, di riflesso, il nostro europeismo si riduce ad una esercitazione verbale, nutrendosi di antichi sospetti e di ben note ripugnanze.
La resistenza europea invece fu un rifiuto al nazismo, non un rifiuto alla Germania[13].
Ma oltre all’incerto rafforzarsi dell’unificazione europea, negli stessi anni era in atto anche anche l’escalation della guerra del Vietnam: a differenza del sindaco di Firenze La Pira e del presidente dell’A.N.P.I. Boldrini che si erano recati in visita al governo comunista di Hanoi, il presidente Argenton prese una posizione favorevole alle missioni di guerra americane, analogamente alla posizione espressa nello stesso periodo dal ministro degli Esteri Fanfani; la cosa non fu accettata da molte associazioni, al pari del suo mettere in luce, da buon liberale, i rischi di una burocrazia statale crescente e fine a se stessa, nei termini di quella che sarà in seguito definita come “questione morale”. Al tempo stesso, all’interno della F.I.V.L., e precisamente da parte dell’ “Associazione Partigiani Cristiani” presieduta da Mario Ferrari Aggradi, venivano addebitati al presidente «la preoccupazione di non essere all’altezza di amministrare con sufficiente vigore e inventiva il grande patrimonio morale e organizzativo lasciato da Mattei»[14] ed il suo essere estraneo alle direttive del partito di maggioranza.