1. Le formazioni autonome nella Resistenza
Si è spesso cercato di dare alla guerra partigiana un significato angustamente partitico, riconducendo le formazioni partigiane ai diversi schieramenti politici, che, annullati dal fascismo, avevano ripreso la scena dopo la destituzione di Mussolini del 25 luglio 1943, ma si deve osservare che, all’indomani dell’8 settembre, la loro influenza era ancora embrionale e che la loro rete organizzativa rimaneva molto sporadica e frammentaria; anche per questo, gli avvenimenti che seguirono l’annuncio dell’armistizio portarono alle giornate più incerte e tragiche della nostra storia nazionale: in fuga il Sovrano e il Governo, che, in cambio della propria salvezza, non avevano esitato a lasciare la capitale ai tedeschi ed il paese nel caos; allo sbando l’Esercito e l’Aviazione, disorientati da un capovolgimento di fronte non preparato e da ordini equivoci, talvolta contraddittori; la Marina costretta a raggiungere i porti dello stesso nemico contro cui aveva combattuto fino al giorno prima; la popolazione, in un primo momento ignara e festante, convinta dell’agognata fine della guerra, poi smarrita, confusa, sconvolta. In questo vuoto, iniziò la Resistenza, sulla base di una scelta morale prima che politica, con la popolazione civile che aiutava i partigiani e nascondeva ricercati, ebrei e prigionieri alleati, con gli internati militari italiani che, a più riprese, rifiutarono il cibo e le condizioni migliori proposti dai tedeschi, con i giovani che scelsero di andare oltre l’indifferenza ed il comodo stare alla finestra in attesa dei liberatori e, seppur con armamento insufficiente ed in situazioni difficili, seppero infliggere gravi colpi alla stessa Wehrmacht. Fu una Resistenza politicamente multicolore, che sbocciò spontanea contro la dura occupazione straniera ed il progetto nazista del “nuovo ordine europeo”, un progetto basato sull’oppressione e sulla schiavitù, sull’odio razziale e su un conformismo forzato e profondamente illiberale; un progetto esplicitamente condiviso dai fascisti della cosiddetta “repubblica sociale”, che, dopo le prime settimane di smarrimento, si schierarono accanto ai tedeschi.
Molto è stato detto sulle formazioni partigiane più politicamente connotate, riconducibili ai partiti che, all’indomani della Liberazione avrebbero retto le sorti del Paese; meno conosciute ed inseribili nello schema di forze che sarà in seguito definito “dell’arco costituzionale” sono le molteplici formazioni autonome, che in varie parti dell’Italia centrale e settentrionale condussero una dura lotta contro i nazisti ed i “repubblichini”. Le parole di uno storico aiutano a comprendere meglio questi schieramenti:
L’apoliticità della lotta partigiana era rivendicata con forza dai gruppi dove era prevalente la presenza di militari: la guerra era avvertita come guerra di liberazione, condotta contro i nazisti occupanti e i collaborazionisti di Salò, in nome della fedeltà al governo legittimo del Regno del Sud e al giuramento prestato. […] L’intreccio del movimento patriottico con quello monarchico-militaristico portava queste formazioni a considerarsi “reparti dell’esercito regio in territorio occupato dal nemico” e a guardare con sospetto lo sforzo di coordinamento dei politici: in un secondo tempo, a mano a mano che l’estendersi dell’autorità del CLN imponeva un collegamento partitico, esse stabilivano rapporti con il partito liberale o, come la “Osoppo” in Friuli e le “Fiamme Verdi” in Lombardia, con la Democrazia Cristiana (rapporti che non significavano tuttavia legami di dipendenza diretta). Gli attributi utilizzati per qualificarle erano “bianche”, “badogliane”, “monarchiche, “militari”, sino alla denominazione ufficiale di “autonome” (non tutte le formazioni “autonome” presentavano, però, le caratteristiche indicate: in alcuni casi il termine era impiegato nel suo significato etimologico puro e all’interno della formazione coesistevano gruppi con caratteristiche politiche differenti).
Alla rivendicazione di apoliticità degli “autonomi” si contrapponevano le formazioni legate ai partiti, che vedevano la guerra di liberazione “non come una guerra fra stati, fra “nazioni” e “potenze” e “governi” in conflitto, ma come una vera guerra civile, una guerra ideologica e politica quant’altre mai, una guerra destinata non solo a scacciare gli invasori tedeschi e ad eliminare i traditori fascisti, ma a gettare le basi per un ordine nuovo politico e sociale. […] Dunque, niente apoliticità delle formazioni, ma anzi necessità assoluta di una coscienza politica, d’una consapevolezza delle ragioni profonde della lotta e degli obbiettivi da raggiungere”. Con questa impostazione, pur nella diversità di programmi, si erano costituite sin dalle prime settimane le formazioni garibaldine e quelle azioniste; più tardi sorgevano le “Matteotti”, legate al partito socialista (la 1a brigata d’assalto “Matteotti” si era costituita nella zona del Grappa a metà dicembre), e le “brigate del popolo” legate alla Democrazia Cristiana, numericamente poco significative ma che non esaurivano comunque la partecipazione cattolica alla Resistenza.
L’identificazione tra le formazioni e i rispettivi partiti non era formalmente rigida, perché il reclutamento non avveniva attraverso canali di partito, ma il rapporto era stretto, garantito dal ruolo dei comandanti e dalla presenza dei commissari politici.[4]
Durante la Resistenza, furono quindi molte le divisioni che segnarono i rapporti tra i reparti partigiani riconducibili ai diversi schieramenti partitici, a livello tattico, strategico, nel modo di intendere i legami con le forze alleate, oltre che nei principi ispiratori dell’azione politica una volta ristabilita la pace, ma su due obiettivi comuni tutte le formazioni si trovarono d’accordo: liberare l’Italia dalla pesante occupazione tedesca e riconquistare la libertà, chiudendo definitivamente con un regime dittatoriale ed antidemocratico.