L’1 luglio si è tenuta sul Monte Penice, presso il monumento votivo della Federazione Italiana Volontari della libertà, l’annuale cerimonia in memoria dei partigiani autonomi e cattolici che hanno combattuto per la democrazia. Durante la cerimonia il Presidente della FIVL Francesco Tessarolo ha letto ai delegati, provenienti da tutta Italia delle associazioni federate, il seguente discorso:
«Signori Sindaci, autorità civili e militari, rappresentanti delle associazioni combattentistiche e partigiane, cittadine e cittadini che anche quest’anno avete voluto essere qui per onorare i sette aviatori americani ed inglesi caduti nel febbraio 1945, mentre eseguivano lanci di materiale ed armi ai partigiani.
Vi confesso che provo non poca inadeguatezza a parlare davanti a questa chiesetta, che è stata fatta erigere nell’immediato dopoguerra dal comandante Enrico Mattei, con la collaborazione dei partigiani del RAP di Voghera, e davanti ai nomi illustri dei presidenti che mi hanno preceduto alla guida della Federazione Italiana Volontari della Libertà.
A differenza di loro, non ho partecipato alla Resistenza, ma tengo molto stretto il ricordo di mio nonno, che nel 1931 venne licenziato per non aver voluto la tessera del partito fascista, pur avendo sette figli da mantenere, e di mio padre partigiano.
Vorrei iniziare con le parole di Pietro Calamandrei, insigne giurista e padre costituente:
“Le commemorazioni – egli scrive – non sono soltanto rievocazione del passato, sono soprattutto esame di coscienza, confessione dei nostri doveri, riconferma dei nostri impegni (…) per trarre da quello che ci dicono i nostri morti nuove forze per riprendere, con più risolutezza, il cammino verso l’avvenire”.
Queste limpide parole invitano tutti a ripensare gli ultimi, terribili venti mesi del secondo conflitto mondiale, partire dall’estate del 1943, quando, dopo tre anni di guerra segnati drammaticamente da impreparazione ed improvvisazione, i discorsi sull’immancabile vittoria delle forze dell’Asse e sull’infallibilità di Mussolini non convincevano più; le disfatte militari, i bombardamenti ed il cibo insufficiente avevano presto fatto dimenticare la precedente infatuazione collettiva e dimostravano tragicamente l’assoluta superficialità della militarizzazione di massa voluta da Mussolini.
In poche settimane, sempre più sgomenti e disorientati, gli italiani assistono all’avanzata degli Alleati dalla Sicilia, all’armistizio dell’8 settembre 1943, alla fuga del re e del suo governo, mentre le truppe tedesche procedono rapidamente all’occupazione del territorio italiano, alla rapina di tutte le risorse ed all’internamento in Germania dei militari italiani; sin pochi giorni, centinaia di migliaia gli ufficiali ed i soldati italiani, lasciati senza ordini, vengono catturati dai tedeschi e trasferiti nei campi di concentramento del Reich; essi non vennero considerati prigionieri di guerra, ma internati militari, per essere meglio sfruttati come schiavi nell’economia di guerra, contro ogni convenzione internazionale.
A più riprese, fu loro offerta la possibilità di arruolarsi con i tedeschi o con la Repubblica di Salò, ma oltre seicentomila internati rifiutarono ripetutamente ogni collaborazione, scegliendo la via del lager invece che quella del ritorno a casa: decine di migliaia di essi, morirono per gli stenti, le malattie, le violenze. Della drammatica vicenda di quei seicentomila uomini, che scelsero con tanta fermezza e pagando a caro prezzo da che parte stare, a lungo si è taciuto o si è parlato troppo poco.
“Non abbiamo vissuto come bruti.” scrive uno di loro “Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre famiglie e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire”.
Intanto, dall’autunno del 1943, con la Repubblica di Salò, i fascisti più fanatici ed esaltati ritornano sulla scena carichi di rancore e di volontà di rivalsa. Ma ancora una volta, la realtà non corrisponde alle loro aspettative ed ai tanti proclami ed i tentativi del generale Graziani di ricostruire l’esercito per combattere a fianco dei tedeschi, e non sotto il loro comando, hanno scarso successo, mentre è evidente la profonda dipendenza della Rsi dalle truppe tedesche, dai loro interessi ed obiettivi.
In questo terribile contesto, nelle case, nei treni, a scuola, nelle piazze, ma soprattutto nel profondo della propria coscienza, ciascun italiano si trovò davanti a scelte nette e radicali, che assolutamente non avevano precedenti e alle quali nessuno era preparato. Diversamente dal Regno del Sud dove, pur nei limiti delle pesanti condizioni di resa imposte dagli Alleati, riprendevano vita i partiti antifascisti e le prime forme di confronto politico e di partecipazione democratica, nell’Italia centrale e settentrionale, a partire dal primo bando Graziani del 9 novembre 1943, furono per primi i giovani a dover decidere da che parte stare, in termini perentori e con scadenze precise, che non ammettevano deroghe o mezze misure.
Fu così che dei giovani meno che ventenni, nati e cresciuti durante il fascismo, frastornati dalla sua propaganda, dalle sue certezze assolute e dall’assenza pressoché totale di riscontri o alternative, seppero guardare nella propria coscienza e decidere di abbattere la schiavitù, la dittatura, per instaurare la libertà e la democrazia. Nella confusione e nello sfacelo generale, essi si aggiunsero agli intellettuali che erano stati costretti a lasciare l’Italia agli inizi del Ventennio o erano finiti al confino, ai reduci della guerra di Spagna, più politicizzati, ai militari che erano sfuggiti alla deportazione ed avevano conosciuto nei deserti africani o nelle steppe russe il disprezzo e l’alterigia dei tedeschi nei loro confronti.
Fu così che intellettuali e contadini, giovani ed anziani, militari esperti e renitenti che non avevano mai imbracciato un’arma, non credenti e cattolici praticanti, uomini e donne seppero capire come ciascuno di noi sia legato da valori di fondo che ci muovono al di sopra della nostra quotidianità e del nostro piccolo mondo, ci sollevano al di sopra dei nostri interessi, ci insegnano che vuol dire essere cittadini. Pur provenendo da molteplici storie personali ed operando in circostanze particolarmente tragiche, queste persone tanto diverse seppero andare oltre l’indignazione temporanea e la comoda attesa per rinsaldare i vincoli, tanto preziosi quanto fragili, del bene comune, mettendo al centro la difesa della dignità umana e la solidarietà ed opponendosi, anche al prezzo della vita, al progetto propugnato dai nazisti e dai fanatici fascisti della Repubblica Sociale Italiana, un progetto basato sull’oppressione e sulla schiavitù, sull’odio razziale e sul conformismo forzato, illiberale e xenofobo.
Nei primi mesi del dopoguerra, complessi e concitati, quando i partiti politici occuparono la scena nazionale, questa dimensione etica ed ideale venne posta in secondo piano, come ebbe a sottolineare lo stesso Enrico Mattei:
“A trattare della questione partigiana, sono anche indotto per aver notato come le numerose celebrazioni fatte nella seconda meta? dello scorso anno e poi, con sempre minore frequenza, in questi primi mesi del 1946, vennero quasi esclusivamente organizzate ed effettuate da altri partiti politici che, come e? ovvio, furono indotti a valorizzare ed a mettere in particolare risalto l’apporto delle unita? partigiane che a tali partiti facevano capo e che da essi dipendevano. Cio? ha forse ingenerato, nell’animo di coloro che ascoltarono tali rievocazioni e che ne lessero i resoconti sui giornali, la convinzione che la lotta di liberazione sia stata un po’ il monopolio di uno o due partiti politici. Noi troppo poco parlammo, fino ad oggi, dei nostri partigiani e troppo poco ne scrivemmo, quasi fosse la materia a farci difetto”.
A distanza di oltre settant’anni dalle parole di Mattei, credo sia giunto il tempo di tornare ad evidenziare proprio questa dimensione etica ed ideale, la dimensione che contraddistinse particolarmente le formazioni autonome, apartitiche o cattoliche, le formazioni che poi confluirono nella FIVL.; la dimensione che la Medaglia d’Oro Primo Visentin, Masaccio, che operò tra Vicenza e Treviso, così esprimeva: “Di politica parliamo dopo, adesso dobbiamo combattere i nazifascisti e conquistare la liberta? e la democrazia”; anche Nino Bressan, altra figura di spicco della Resistenza cattolica vicentina, scriveva:
“Quando si dice che la nostra Costituzione e? nata dalla Resistenza, si sappia che non e? retorica, ma una grande verita?. Si?, perche? nelle soste della lotta si parlava ai contadini e agli operai del diritto alla terra ed al lavoro, ai ragazzi del diritto allo studio, alle donne del diritto di voto, a tutti si parlava di sanita?, di liberta?, di giustizia sociale. Anche per questo avemmo il massimo appoggio da parte di tutta la popolazione”.
L’idea che ci sia un bene comune che deve prevalere, al quale tutti dobbiamo contribuire, responsabilmente e consapevolmente, ha guidato allora le formazioni partigiane, ha ispirato poi i lavori dell’Assemblea Costituente e deve continuare ad essere tenuta in grande evidenza anche oggi: in momenti nei quali appare difficile, se non impossibile, andare oltre all’individualismo esasperato ed al tornaconto immediato assunti come unico criterio di riferimento, in una fase delicata e complessa della storia dell’Italia repubblicana, segnata dalla delegittimazione continua dell’avversario politico, dalla crescente frammentazione e da visioni sempre più ristrette, segnate solo da protesta e scontento, ritornare sul monte Penice e rievocare le vicende tragiche che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana, significa uscire delle paludi pericolose dell’indifferenza, del fatalismo e della rassegnazione, significa capire lo stretto intreccio che sempre intercorre tra le scelte collettive e quelle individuali, per trovare, o ritrovare, il coraggio di amare la verità, di credere ai propri ideali e alle proprie speranze, il coraggio di riaffermare, tutelare, rinsaldare sempre quella dimensione etica ed ideale, quel futuro comune e condiviso che fu la causa cui tanti italiani e soldati stranieri dedicarono il loro impegno e la loro vita.
Viva l’Italia, viva la Resistenza, viva la FIVL.»