Cento anni fa, il 15 agosto 1924, compariva sulle pagine de “Il Popolo”, quotidiano del Partito Popolare Italiano di don Sturzo diretto da Giuseppe Donati, questo articolo di fondo di Igino Giordani (giornalista e scrittore, cofondatore del Movimento dei Focolari), intitolato Arcigallo in finestra.
Lo riproponiamo alla lettura di tutti, stante la sua stringente (e urgente) attualità, soprattutto a riguardo di certe infiltrazioni nostalgiche o propriamente fasciste nel mondo cattolico.
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Arcigallo in finestra
Non si capisce perché proprio nel campo cattolico debbano tentarsi allevamenti su vasta scala d’invertebrati, quasiché le norme evangeliche fossero zozza pel rammollimento della specie e decotti depauperativi dell’organismo sociale, giuste le frenesie aristocratiche di quell’ariano selezionato che fu Federico Nietzsche.
Un organo già fasciofilo, oggi affaticato a resecarsi tutti i connotati per tema d’essere individuato vuoi a destra vuoi a manca, e che perciò, fatto incolore e anodino, non è possibile definire politicamente — si potrebbe qualificarlo cattolico nazionale: ma (vedi Nemesi) questa determinazione un tempo applicata per strazio dai pennaioli di Bismarck ai cattolici che avevano disertato il Centro nel suo duello poliennale col Cancelliere di Ferro, oggi è stata riesumata per un pari scempio morale ai danni di coloro i quali hanno disertato il P.P.I. nel suo duello con (i mani di Bismarck non mi tirino pei capelli) Benito Mussolini, e suona quindi vilipendio… —; quest’organo dunque affermava che, dinnanzi alla rissa divampante presentemente in Italia, dovere di cattolici fosse di ritirarsi in finestra, a vedere…
Immortale anima di don Abbondio, per cui vari leaders mancati sono manzoniani! A tenere un bimestre il cervello in salamoia, una risoluzione così limpida, precisa, coraggiosa, machiavellica, non sarebbe colata dai nostri sforzi associati. Ecco filtrata agli alambicchi gementi da esperienze plurisecolari, la quintessenza della vera, assortita arte politica. La politica semita della diaspora, il cui manichino ideale è il cittadino ottuso, acefalo, smidollato e asessuale: quando ne va la vita, il furbo lascia i rissanti a ruzzare sul selciato, sguiscia in casa, si tira dietro pali e chiavistelli e salta in finestra, a riguardare, tra carole di rondoni, omericamente.
L’uomo bennato lascia agli scamiciati, poco di buono, di scavezzarsi il collo per le vie; e se i più scalmanati dànno fuoco alla casa, lui si ritira al quinto piano, all’ultima finestra, e si riscalda allo scoppiettante incendio che divora i piani sottostanti. Furbo, l’amico!…Dotato di sottilità sillogistica, opina che quando poi avrà visto da che parte la vittoria pieghi, egli scenderà per imbrancarsi dietro il più forte, ad acchiappar coriandoli. Come si vede, un sistema profilattico a prova di cannone.
Però la va male per il duce, se i suoi meditano certe ritirate; si vede che costoro sentono puzzo di cadavere.
La rissa furibonda, per la quale i sacerdoti della dea Cibele si sbracciano a predicare lo spirito rinunciatario, l’abbiosciamento graduale sino alla crispoltizzazione nazionale [il riferimento è a Filippo Crispolti, uscito dal Partito Popolare nel 1923 per aderire al filofascista Centro Nazionale Italiano] della specie cattolica, sarebbe alla fin fine il processo Matteotti. Un processo nel quale sopra tutto è impregnata una questione di morale. E la morale, come si sa, non ha a che vedere col cristianesimo! La morale — lo dice anche la Teodicea bandita a puntate sull’organo siderurgico che spappagalla seralmente stracchi rimasticamenti dell’ateo Maurras e del pornografo Daudet, due fratelli siamesi ai quali il cattolicismo di Europa dovrebbe, come giustamente si pretende, firmare una cambiale in bianco per la rifabbricazione dell’etica cristiana negli Stati moderni, — la morale o coincide con le opere, parole e omissioni del Governo di partito o, pari a vile [parola illeggibile], deve rimpiattarsi a sbertucciare da una finestra.
Come i preti: se scrivono lettere a Cremona Nuovaparificando il ras disoccupato massimo della guerra civile a Cristo nel tempio, sono archetipi di virtù civica e religiosa; se sottoscrivono per la vita del Popolo diventano ribelli alle norme dei superiori. Come noi: se ci azzardiamo a dire su una rivista cattolica che «uccidere per il partito» è un comandamento non contemplato nei Testamenti, incappiamo ipso facto nella violazione dell’apoliticità voluta dall’Azione Cattolica. Cioè la morale è subordinata alla politica, proprio come vuole Macchiavelli coi suoi preludiatori. Si può ammazzare, violare le libertà, strillare «Viva Dumini», minacciare i plotoni d’esecuzione: ma la morale cattolica non deve ficcarvi il becco: altrimenti fa della politica.
Ci dispiace per il carico della mula di don Abbondio; ma non ci associamo. La carriera d’Arcigallo non è per noi. Non ci crispoltizziamo; non diventiamo mucillagine, che cede alle pedate e si conforma agli spigoli. Se c’è da lottare, non scappiamo. Nella lotta conflagrante è in gioco la patria, e con la patria gl’interessi ideali più augusti. Si capisce, il compito è duro: ne va la vita: pazienza.Summum crede nefas animam praeferre pudori: e noi dovremmo essere meno… cristiani del poeta pagano?
Il processo Matteotti è il vaglio che cribra i valori tutti; perciò lo si paventa e sabota. È la meta intorno a cui ha da girare il carro governativo, nella sua corsa pazza. Ma oltre tutto è un processo di valori spirituali. Questo delitto balza logicamente dalla prassi del governo di parte: un governo per di più che ha fatto proprie caoticamente le dottrine di Stato più in contrasto coi principii cattolici. Quando il giovane deputato socialista fu assassinato, era ministro dell’Istruzione Pubblica, cioè dell’educazione della generazione presente, un uomo che aveva codificata la paurosa identità della predica col manganello, (è bene ripeterlo, cioè dell’idea con la rivoltella).
Estrema applicazione neo-hegeliana di quel sistema dell’identità che si piazza sulla negazione di Dio con l’assurdo cardinale: l’Essere e il Nulla son la stessa cosa. Questa dottrina, ridrogata e rimestata ha pervaso, con brivido di terzana, le coscienze e s’insinua, come tignola, nello Stato moderno portando in metafisica l’ateismo; in logica l’abolizione della ragione; in etica la polverizzazione della coscienza e della distinzione tra bene e male; in politica l’arbitrio. Se Proudhon ne deduceva le «identità »: la proprietà è il furto, la religione è l’ateismo, il governo è l’anarchia; i ministri fascisti ne hanno dedotto l’eguaglianza surriferita.
Ancora una volta il governo dittatoriale s’informa a una dottrina eversiva dei principii cristiani, e, al di là dei possibili favori e ossequi, dannosa alla cattolicità. Le tirannidi degli Stati odierni sono costrutte sull’assurdo, sul rinnegamento della ragione (vedi ordinanze contro la stampa).
In altra epoca si combatteva il cristianesimo in nome della ragione e della libertà. Oggi possiamo affermare questo, che non si può più combattere il cristianesimo se non distruggendo la ragione e la libertà.
Prima che gli aristarchi in caricatura, messisi tra i nostri piedi, si lancino ad arraffare il superiore periodo, per esibirlo al loro padrone come cimelio benemerenziale, avverto che è tratto di peso da un libro cattolico, il quale tali asserzioni prova con una dialettica mirabile.
Ora noi cattolici dovremmo, nei casi in cui ci fosse da turbare i duci e i sottoduci viventi «pericolosamente», abdicare alle ragioni primordiali della coscienza, e ritirarci in canonica, ad aspettar che spiova…
Non abbocchiamo: e sapendo, non stiano zitti. — Chi è in grado di dire la verità e non la dice, sarà giudicato! — ammoniva uno scrittore cristiano, martirizzato a Roma nel Il secolo, per non aver taciuto la verità.
A Torino si sta per adunare la nostra Settimana Sociale. Si occuperà dello Stato. Certo nessun Narsete vi porterà uno spirito rinunciatario e sedativo: giacché non si tratta tanto di definire i concetti cristiani di autorità ecc. ormai precisati sulla scorta tomistica dai Padri Gesuiti, dal Taparelli al Rosa, quanto di studiare la preparazione per la conquista dello Stato. Perché si può disquisire sinché si vuole: ma lo Stato non sarà mai quale i cattolici lo vagheggiano, se essi non si risolvono a impadronirsene. Il che non si ottiene evidentemente standosene al davanzale, come gli allocchi del melodramma, o appollaiandosi in un canestro appeso al solaio, ad acciuffar le nuvole, come il Socrate aristofanesco nel suo Pensatoio.