Egregio signor Sindaco,
Egregio signor Presidente della Provincia,
Eccellentissimo signor Prefetto,
Rappresentanti del Parlamento e del Governo,
Autorità tutte, civili, militari e religiose,
Rappresentanti delle Associazioni Partigiane, combattentistiche e d’arma,
Rappresentanti degli studenti e delle studentesse,
Rappresentanti delle Associazioni, dei Sindacati e dei Partiti politici,
Cittadine e Cittadini di Verona!
Ringrazio di cuore per l’invito a tenere quest’orazione ufficiale nel giorno centrale del calendario civile della Repubblica: il XXV Aprile, che ci propone di ricordare e celebrare il 78° Anniversario della Liberazione. Questa solenne Festa nazionale ci permette di rivivere la gioia di quanti, nel 1945, dopo inenarrabili sofferenze, videro la conclusione del secondo conflitto mondiale e provarono l’emozione, dopo tanti anni, di assaporare la riconquistata libertà. Una libertà che era stata repressa da un ventennio di dittatura, che aveva trascinato l’Italia in un temerario conflitto di aggressione, combattuto al fianco della Germania di Hitler, nel corso del quale il nostro paese attaccò e invase altri paesi indipendenti e sovrani, in un turbine crescente di violenze che, dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e dopo la firma dell’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943), diede avvio alla Guerra di Liberazione, combattuta vittoriosamente dagli alleati e dai partigiani contro i nazisti e i fascisti della Repubblica di Salò.
La giornata di oggi è, quindi, prima di ogni altra cosa, una festa: una festa che ci ricorda la liberazione dalla guerra, dai bombardamenti, dai morsi della fame, dalla violenza, dalla persecuzione politica, razziale e religiosa, dalla deportazione, dall’oppressione totalitaria di un regime che per vent’anni aveva negato i diritti e le libertà più elementari, da quella di espressione del pensiero a quelle di stampa, di associazione, di organizzazione, di movimento, di credo religioso.
Una festa che celebra la liberazione di un intero popolo dalla sudditanza morale e materiale a una dittatura, e che voleva fortemente affacciarsi al riscatto della dignità di cittadini e cittadine liberi e protagonisti del proprio domani.
Per questo è bello far festa, ritrovarci in piazza, abbracciarci e sorridere, fieri di essere gli eredi di quelle donne e quegli uomini che in quella lotta di liberazione combatterono e, in molti casi, sacrificarono la vita per conquistare per sé e per noi quella dignità, quei diritti, quelle libertà.
Quelle donne e quegli uomini, che chiamiamo partigiani, ma che amavano definirsi patrioti o ribelli, e che chiamarono il loro esercito Corpo dei Volontari della Libertà, proprio perché « volontari si adunarono / per dignità e non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo», come recita la lapide ad ignominiam di Piero Calamandrei, sono oggi qui con noi, ascoltano i nostri discorsi, facendosi attenti a che il nostro parlare, entusiasta e magari un po’ enfatico, non ci distragga dal sottolineare il senso profondo di questa giornata.
Oggi ricordiamo il loro impegno e il loro sacrificio, che fu quello di scegliere. Scegliere di schierarsi con la giustizia, contro la violenza e la sopraffazione; con l’impegno e la generosità, contro l’egoismo e l’interesse particolare; con la libertà, contro la dittatura.
Chi erano, dunque, questi partigiani, questi patrioti, questi ribelli, questi volontari della libertà?
In larga parte erano dei giovani, coraggiosi e forse un po’ temerari; ma tra loro non mancarono gli adulti, che magari erano padri e madri di soldati dispersi o caduti sui vari fronti delle guerre di aggressione, o ancora antifascisti che avevano vissuto le prime, imperfette forme della democrazia liberale nell’Italia del primissimo dopoguerra, oppure soldati reduci del fronte russo, greco-albanese o africano. Dapprima pochi e mal organizzati, furono poi sempre più numerosi, provenienti da territori e classi sociali molto diversi, tutti e tutte mossi dal desiderio di cambiare le cose, di dire “basta” al fascismo, all’occupazione nazista, alla guerra. Donne e uomini mossi dal desiderio di costruire una vita nuova: libera, giusta, felice.
Non fecero tutto da soli. Accanto a loro ci furono gli alleati, che insieme combatterono e in molti casi fornirono le armi.
Ci fu la popolazione delle città e dei paesi, che li nascose nelle cantine, nei solai, nelle carbonaie, che li tenne informati sui movimenti dei nazifascisti, che diede copertura alle loro azioni di sabotaggio e di guerriglia.
Ci furono le contadine e i contadini delle campagne e delle montagne, che diedero loro cibo, vestiti, rifugio dalle intemperie, e spesso anche quel tanto d’affetto e d’umana compassione necessario ad alleviare per un momento le difficoltà di una vita di sacrificio e di pericolo, soprattutto durante i due lunghi e terribili inverni.
Ci furono i sacerdoti, le religiose e i religiosi che aprirono le sagrestie e i conventi per dare loro riparo, conforto, protezione.
Ci furono gli operai e le operaie che al loro fianco scioperarono e collaborarono ai boicottaggi e ai sabotaggi della produzione bellica, impedendo nel contempo che i nazisti distruggessero o portassero in Germania i macchinari delle industrie che sarebbero serviti per la ricostruzione.
Ci furono gli insegnanti delle scuole e delle università che, rischiando la delazione e la denuncia, insegnarono ai più giovani a ragionare con la propria testa, a esercitare il libero pensiero, a coniugare la verità dei fatti con la dignità degli intenti, contro le semplificazioni roboanti della propaganda di regime. L’elenco potrebbe continuare.
In quel complicato e meraviglioso mosaico di donne e di uomini che chiamiamo “Resistenza” si mescolarono migliaia di esperienze umane, politiche e sociali diversissime: ci furono i soldati che, dopo l’8 settembre 1943, rifiutarono di arruolarsi sotto le insegne nazifasciste e combatterono con le formazioni partigiane, o si lasciarono incarcerare e deportare nei campi di internamento e di prigionia, dai quali molti non fecero ritorno. Proprio dal mondo militare ci viene la prima, eroica pagina della Resistenza italiana che, proprio ottant’anni fa (settembre 1943), vide protagonista la Divisione Acqui a Cefalonia. In quell’occasione, 5155 soldati diedero la vita per testimoniare la propria scelta: fu il primo, enorme sacrificio di una guerra nuova e diversa da quella combattuta fino ad allora.
La guerra di Liberazione fu anche una guerra civile, nella misura in cui contrapponeva italiani contro italiani. Ma si trattava di italiani mossi da ragioni impossibili da equiparare sotto il profilo morale, ieri, come oggi, come domani. C’era chi difendeva le ragioni della dittatura e chi voleva libertà per tutti; chi era a favore della violenza e della prevaricazione e chi, invece, desiderava giustizia e democrazia.
Qui a Verona, città collocata in una posizione strategica per i tedeschi, in quanto porta di accesso al Reich dall’Italia, fin dall’8 settembre 1943 si concretizzarono emblematici tentativi di resistenza nati in seno al mondo militare, per esempio quelli posti in atto dall’8° Reggimento artiglieria “Pasubio” nelle caserme “Ederle” e “Campofiore”, sotto il comando del colonnello Eugenio Spiazzi, reduce dal fronte russo. Ma importantissimi furono anche gli scontri al palazzo delle Poste dove, autentico inizio della Resistenza in città, ai militari s’unirono fin da subito gruppi di civili.
Anche per questi accadimenti, Verona fu posta sotto il più stretto controllo nazista, divenendo “la più nazificata città d’Italia”; si riempì di comandi generali nazisti, come quelli della Gestapo, della KriPo e dell’SD in Corso di Porta Nuova, ai quali si affiancarono i tribunali delle SS e della Wehrmacht.
Verona fu anche tristemente nota per essere stata il teatro, tra l’8 e il 10 gennaio 1944, del processo-farsa celebrato contro i gerarchi che, votando l’ordine del giorno Grandi nel Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943, furono considerati traditori di Mussolini dai repubblichini, e per questo fucilati al forte San Procolo l’11 gennaio 1944.
Tuttavia, va sfatato il mito di una città supinamente asservita ai nazifascisti.
Per quanto precocemente “nazificata”, Verona vanta la costituzione di ben tre successivi Comitati di Liberazione Nazionale. Il primo fu scoperto nel novembre 1943; i suoi componenti furono tutti arrestati. Tra giugno e luglio 1944 fu scoperto, arrestato e deportato l’intero secondo CLN, mentre il terzo – di cui faceva parte anche il celebre regista d’opera Gianfranco De Bosio, scomparso lo scorso anno – riuscì a rimanere attivo fino alla Liberazione. Al periodo del secondo CLN fa riferimento uno dei fatti più noti della Resistenza veronese: l’azione gappista che portò, il 17 luglio 1944, all’irruzione nel carcere degli “Scalzi” e alla liberazione di Giovanni Roveda, sindacalista, dirigente comunista, partigiano e poi sindaco di Torino dopo la Liberazione, che era stato catturato a Roma dalla famigerata banda Koch e traferito a Verona per ragioni di sicurezza nel gennaio 1944, nello stesso carcere dov’erano detenuti i gerarchi imputati nel processo di Verona.
Mi sia qui permesso un cenno a due figure dell’AVL di Verona, il gen. Gaetano Cantaluppi, che fu collaboratore del secondo CLN veronese, e il comandante Alessandro Canestrari, fondatore e guida del battaglione partigiano “Tregnago” e poi parlamentare democristiano di lungo corso, entrambi deportati e sopravvissuti ai lager tedeschi (a Flossenbürg il primo, a Dachau il secondo). Ciò che voglio ricordare, in particolare, è il loro infaticabile impegno nel ricordo degli italiani morti nei campi di concentramento, a onore dei quali fecero costruire una cappella sulla collina del Leitenberg, vicino a Dachau, dove ancor oggi riposano oltre 7000 salme, la maggior parte delle quali mai identificate. Ma voglio anche ricordare i nomi delle 13 medaglie d’oro veronesi al Valor Militare per la Resistenza, 11 delle quali alla Memoria: Giovanni Duca, Lorenzo Fava, Giovanni Fincato e Danilo Preto, uccisi in diverse azioni partigiane e circostanze nella città di Verona; Udino Bombieri, caduto in combattimento contro i tedeschi a Bracciano (RM); Gian Attilio Dalla Bona, trucidato a Recoaro (VI); Luciano Dal Cero, caduto a Gambellara (VR); Andrea Paglieri, fucilato a Bene Vagienna (CN); Ezio Rizzato, trucidato a Fondotoce di Verbania; Rita Rosani, uccisa sul Monte Comun di Negrar (VR); Raffaele Trevisan, morto alle Bocche di Cattaro in Montenegro; Alberto Andreani, arrestato in azione e deportato a Bolzano-Gries e morto nel 1951; Evelino Marcolini, decorato per l’azione di sabotaggio sottomarino contro la portaerei Aquila a Genova, morto nel 2006.
Molto ancora ci sarebbe da dire intorno sulle vicende resistenziali di Verona e del suo territorio, che meritarono, nel 1993, il conferimento alla città della Medaglia d’Oro al Valor Militare, di cui abbiamo poc’anzi ascoltato le motivazioni. Ma vorrei introdurre qui una breve riflessione conclusiva, che parte dalla parola “Resistenza”.
Sotto il profilo grammaticale, “Resistenza” è un sostantivo singolare astratto. Nella sua concretezza storica, invece, la Resistenza fu il crogiolo che unì intorno a obiettivi comuni persone che muovevano da ideali e propositi diversi: erano comunisti e cattolici, socialisti e azionisti, progressisti e conservatori, radicali e liberali, repubblicani e monarchici, laici e religiosi, militari e civili, combattenti e non-violenti, antifascisti della prima ora e giovani cresciuti sotto il fascismo, dal quale si erano allontanati perché ingannati e delusi.
Così, quel sostantivo singolare e astratto deve, di necessità, essere declinato al plurale. La pluralità della Resistenza identifica le diverse storie la caratterizzarono, che furono però indirizzate verso un piano di unità morale e materiale, che prese forma nella lotta comune e nella comune partecipazione alla costruzione della casa di tutte le italiane e gli italiani, la Repubblica, alle cui fondamenta si trova la Carta costituzionale.
Non si possono separare la lotta di Liberazione e le multiformi esperienze della Resistenza dallo spirito e dalla lettera della Costituzione.
Dopo che, con il contributo determinante di tutte le forme assunte dalla lotta partigiana, la dittatura fascista fu sconfitta e l’Italia fu liberata dal giogo nazista, la missione non era ancora del tutto compiuta. Era necessario – e fu, questa, una sfida altrettanto decisiva, di cui oggi ancora dobbiamo esser grati a chi la condusse – che i valori per cui si era combattuto e per i quali erano morte migliaia di persone trovassero piena cittadinanza nella nuova Italia.
Questi valori si chiamavano (e si chiamano) pace giusta e duratura (e Dio sa quanto oggi abbiamo ancora bisogno di una pace davvero giusta e davvero duratura: per l’Ucraina, per il Sudan, per ogni altra guerra sconosciuta di cui nessuno parla attraverso i mezzi di comunicazione, in questo mondo ferito e martoriato da conflitti terribili), si chiamavano (e si chiamano) libertà, democrazia, uguaglianza nei diritti e nei doveri, giustizia sociale, solidarietà, tutela dei più deboli, promozione dei meritevoli, rispetto delle regole. Ecco perché le espressioni “Costituzione nata dalla Resistenza” e “Costituzione antifascista” non sono degli slogan vuoti e stantii, come pure qualcuno ha di recente affermato: sono invece le espressioni più concrete e reali del significato della festa che oggi celebriamo.
La Costituzione è pienamente figlia della Resistenza e della lotta di Liberazione nella misura in cui essa incarna l’eredità di questi valori, e ci impegna a difenderli e porli a fondamento della nostra convivenza civile.
In essa si possono ritrovare tutti i temi fondativi del nostro stare insieme come comunità nazionale. Sono temi di scottante attualità, e che i più giovani tra noi ci richiamano ad affrontare, a ricordare e a portare all’attenzione di chi ha la responsabilità del governo. Sono temi che parlano di pace coniugata con la giustizia e il rispetto, di lavoro, di diritti inviolabili della persona, di doveri di leale partecipazione e contribuzione (anche economica e fiscale) alla vita dello stato, di rispetto e tutela dell’ambiente, di abbattimento degli ostacoli socio-economici che impediscono la piena realizzazione della cittadinanza, di accoglienza per chi fugge da condizioni di pericolo e di miseria, di tutela delle minoranze, di diritto allo studio. I nostri padri e le nostre madri, che contribuirono a scrivere la Costituzione repubblicana, avevano capito che la lezione della lotta antifascista avrebbe dato un senso per il futuro solo attraverso la concreta realizzazione dei principi e dei valori riconosciuti e tutelati dalla Costituzione, sui quali ancora molto lavoro rimane da fare.
È anche di questo che siamo qui, oggi, a fare memoria insieme. Oggi ciascuno porta in questa piazza – e su ogni piazza d’Italia – la propria storia personale e familiare, la propria esperienza e la propria peculiarità, la propria sensibilità morale e ideale, che è come una pietra, un mattone, una tegola, una trave, un chiodo utile a riparare, ricostruire, rinnovare la casa comune.
Il più bel monumento che possiamo fare ai Martiri della Resistenza non è di marmo prezioso, né di bronzo accompagnato da epigrafi altisonanti: è, piuttosto, rappresentato dal nostro impegno a portare avanti ogni giorno l’eredità morale e ideale che ci inchioda alla responsabilità del “memoriale”.
Il memoriale è qualcosa di più del semplice ricordo o dell’azione di memoria: come ci insegna la liturgia, il memoriale è il gesto che rende vivo, presente e attuale ciò che è già stato. Nel memoriale, il senso pieno di quel passato torna al centro del nostro esistere, si mette in gioco nel nostro quotidiano. Perché la libertà non è conquistata per sempre; perché spetta a noi, a ciascuno di noi, la responsabilità di fare vivo ciò che è stato, dimostrare davvero che ancora ci riguarda e ci è necessario per affrontare le scelte di domani.
Viva la Festa della Liberazione!
Viva la Resistenza!
Viva l’Italia libera, democratica e repubblicana!
Roberto Tagliani
Presidente Nazionale Federazione Italiana Volontari della Libertà